Lanza del Vasto
Lanza del Vasto, il filosofo di San Vito dei Normanni
Giuseppe Giovanni Luigi Maria Enrico Lanza di Trabia-Branciforte era il vero nome del filosofo detto Lanza del Vasto (il Gandhi italiano), nato a San Vito dei Normanni nella masseria "Specchia di Mare", tra San Vito e Brindisi, il 29 settembre 1901, da Luigi Giuseppe, dottore in giurisprudenza e titolare di un'azienda agricola-vitivinicola, e dalla marchesa Anna Maria Enrichetta Nauts, nata in Belgio, ad Anversa, il 1° luglio 1874.
Di Lanza del Vasto sono molto interessanti e illuminanti le origini famigliari, note per merito delle pazienti ricerche svolte da un altro illustre sanvitese, l'avv. Giuseppe Roma, appassionato studioso di storia locale, e della dotta "comunicazione" che questi ne fece in occasione di un incontro organizzato dalla Provincia trent'anni fa, nel gennaio 1971.
Il padre del filosofo era, come si è detto, Luigi Giuseppe Lanza, nato a Ginevra il 18 novembre 1857; il nonno Giuseppe Lanza, era nato a Palermo il 20 giugno 1833 e lì residente, è con lui che iniziano i legami della famiglia con San Vito; il bisnonno era Pietro Lanza-Branciforte, principe di Trabia, Butera e Scordia, nato a Palermo il 19 agosto 1807 e lì domiciliato nel palazzo Trabia di via Maqueda 49, coniugato con Eleonora Spinelli-Caracciolo, principessa di Scalia; il trisavolo, Giuseppe Lanza-Branciforte, principe di Trabia, nato a Palermo nel 1755, coniugato con Stefania Branciforte dei principi di Butera, fu ministro di Ferdinando II per gli Affari Ecclesiastici.
Risalendo ancora nel tempo agli ascendenti Ottavio Lanza di Trabia, Cesare Lancia, conte di Musumeci (il cognome di un ramo della famiglia subì una trasformazione circa quattro secoli fa), Blasco, Niccolò e Galeotto Lancia, il quale sposò una sorella di San Tommaso d'Aquino, Cubitosa, figlia di Landolfo d'Aquino e di Teodora di Chieti e nipote di Costanza di Svevia, figlia naturale dell'imperatore Federico II, si giunge a Manfredi I il Vecchio, marchese di Busca (località della provincia di Cuneo) detto Lancia, morto nel 1215 circa, e - ancora più indietro nel tempo - al marchese Bonifacio del Vasto, appartenente a una famiglia (un cui ramo si trasferì nell' Italia meridionale e in Sicilia al seguito degli Svevi) di origine franco-salica. E' appunto nel Sud della Francia che opererà il filosofo nato a San Vito; ed è quasi esclusivamente in francese, lingua della madre, che scriverà le sue poesie e i suoi saggi: con lui la famiglia Lancia del Vasto chiuderà, tornando alle origini, un millennio di storia che ha interessato la Francia, la Germania (con gli Svevi) e l'Italia.

Quest'ultimo è Lanza del Vasto.
A San Vito, Giuseppe Giovanni Lanza e i fratelli Lorenzo Ercole (nato nel 1903 e morto a Rapallo nel 1958) e Angelo Carlo (che, nato nel 1904, divenne cittadino americano nel 1939 e partecipò quattro anni dopo allo sbarco in Sicilia) si facevano notare per la bella presenza e la pratica sportiva (tennis ed equitazione). Espansivi e generosi come il padre Luigi, avevano spiccate attitudini per la musica, il disegno e la pittura. Quindicenne, durante la prima guerra mondiale, Giuseppe Giovanni si recò a Parigi, presumibilmente con la madre e i fratelli, dove frequentò il liceo. A 19 anni conseguì il diploma di "Baccelliere dell'Insegnamento Secondario" che lo abilitava all'insegnamento del latino, del greco e della filosofia negli istituti medi superiori. Rientrato in Italia in quello stesso anno (1920), si iscrisse al corso di filosofia dell'Istituto di Studi Superiori di Firenze (l'attuale Università) e l'anno successivo si trasferì a Pisa per continuarvi gli studi. Dopo alterne vicende, che lo ricondussero a Parigi per brevi periodi, il 21 giugno 1928 conseguì a Pisa la laurea in Filosofia con la tesi "Gli Approcci della Trinità Spirituale". In quegli anni ebbe l'incarico di compilare alcune voci di filosofia dell'Enciclopedia Treccani. Alla morte del padre, avvenuta nel 1931, si trasferì in Francia, dopo un breve viaggio in Germania.
Lanza del Vasto, molto più noto e apprezzato in Francia che in Italia, tanto da essere unanimemente considerato un francese, sia pure di origine siciliana (a causa delle indubbie radici palermitane dei Lanza di Trabia), fu musicista, scultore, pittore, òrafo, poeta, prosatore, ma ebbe fama soprattutto di profeta, pacifista, riformatore, saggio. Cattolico fervente, fu seguace di Gandhi, che lo chiamò "shantidas", servitore della pace. Praticò il digiuno e percorse a piedi l'Italia, la Francia e gran parte dell'Europa; a piedi si recò perfino a Gerusalemme. Nella Francia meridionale, a Bollène, negli anni in cui più vivo era il timore di una guerra nucleare causata dalla corsa al riarmo di molti Paesi - tra i quali la Francia - fondò la "Comunità Laboriosa dell'Arca" (ispirata al biblico Noé), che aveva come distintivo la croce di una vetrata della Cattedrale di Chartres.
Persone delle più diverse condizioni e religioni abitavano nel "villaggio" con le loro famiglie, costruendosi i mobili con metodi primitivi (non usavano né chiodi né viti, ma cavicchi di legno), e confezionandosi gli abiti-tuniche con la lana grezza ottenuta con filatoi a pedale. Insegnanti, professionisti, operai e contadini convivevano nel rispetto reciproco, ma occupando il posto che loro competeva sulla base delle rispettive capacità. Le regole comuni erano la povertà, la semplicità, il lavoro artigianale (come rifiuto di quello meccanizzato), la riduzione al minimo dell'uso del denaro, la partecipazione alla vita pubblica. Un esperimento coraggioso che all'epoca (oltre quarant'anni fa) suscitò vivo interesse e molta curiosità; un tentativo forse utopico di combattere quelli che Lanza del Vasto chiamava i quattro flagelli: la guerra, la sedizione, la miseria e la servitù; ai quali intendeva opporre la non-violenza, la verità, l'onestà totale, la sobrietà, il coraggio, il rispetto di tutte le religioni, il rifiuto di distinguere tra le varie caste e razze.
L'esperienza dell'Arca non è stata inutile; il seme gettato da Lanza del Vasto (come quello di Gandhi) ha dato molti frutti: i tanti e agguerriti movimenti pacifisti e ambientalisti del nostro tempo che, senza predicare il ritorno a forme di vita medievale, condannano gli sprechi e le eccessive sperequazioni e si battono per la convivenza pacifica, per un maggiore rispetto della natura, per la riscoperta dei valori dello spirito e della cultura accanto alle manifestazioni del benessere materiale. Del filosofo-poeta, deceduto nel 1981, ci restano - tra i tanti suoi scritti - questi quattro versi che sono la sintesi della sua esistenza:
Uomo che non hai mai visto il mio volto da vivo,
Conosci il mio vero sguardo attraverso le mie parole,
La mia figura, il mio passo, e pure il mio respiro,
E il sincero calore delle mie due mani amiche...
San Lorenzo da Brindisi
Giulio Cesare Russo (questo era il suo vero nome) nacque a Brindisi - sul luogo in cui egli stesso volle che sorgesse la chiesa intitolata a Santa Maria degli Angeli - il 22 luglio 1559, da Guglielmo Russo ed Elisabetta Masella. Perse il padre da bambino e la madre ch'era appena adolescente. A 14 anni fu costretto a trasferirsi a Venezia da uno zio sacerdote, dove proseguì gli studi e maturò la vocazione all'Ordine dei Minori Cappuccini. Assunse il nome di Lorenzo dal vicario provinciale dell'Ordine che il 18 febbraio 1575 gli concesse l'abito francescano. Il 18 dicembre 1582 divenne sacerdote dopo aver seguito corsi di logica, filosofia e teologia.
Nell'Ordine padre Lorenzo fece rapidamente carriera, anche per la sua vasta cultura, aiutata dalla bella voce di predicatore e dalla figura imponente: il 24 maggio 1602 fu eletto Vicario Generale. Pochi mesi prima, il 9 ottobre 1601, aveva assistito sul campo di battaglia - ad Albareale (ora Ungheria) - i soldati cattolici tedeschi e austriaci che si erano battuti contro i turchi, restando illeso nonostante che si esponesse generosamente.
Tornò a Brindisi nel 1604, da Generale dell'Ordine, e decise la costruzione della chiesa di S. Maria degli Angeli col finanziamento determinante del duca di Baviera, il cui stemma si trova tuttora sulla facciata. Nel 1618, sentendosi prossimo alla fine, voleva tornare a Brindisi, ma i nobili napoletani lo convinsero a recarsi dal re di Spagna Filippo III per esporre le malversazioni di cui erano vittime per colpa del viceré spagnolo Pietro Giron, duca di Osuna. Il 22 luglio 1619 padre Lorenzo morì a Lisbona, forse avvelenato; Filippo III lo seguì meno di due anni dopo, come gli aveva predetto il frate.
Fu beatificato nel 1783 da Pio VI; canonizzato nel 1881 da Leone XIII; proclamato dottore della Chiesa, col titolo di doctor apostolicus, nel 1959 da Giovanni XXIII.
Con San Teodoro è patrono della città di Brindisi, che già nel 1900 gli intitolò una via.
San Teodoro, patrono di Brindisi
San Teodoro: dipinto di Filippo Palizzi
- 1840
San Teodoro, nato nel IV secolo d. C. in Oriente (non è certo che fosse originario dell'attuale Turchia, come si ritiene comunemente), prestava servizio militare in una legione romana ad Amasea, in Turchia, quando l'imperatore Massimiano ordinò la persecuzione dei cristiani. Teodoro fu tra quelli che dichiararono la loro fede in Cristo. I persecutori, riconoscendo il suo coraggio, gli concessero una pausa di riflessione, ma il giovane ne approfittò per incendiare il tempio dedicato a Cibele, la madre degli dei. Invece di punirlo, i giudici ricorsero alle lusinghe promettendogli grandi onori. Quando si convinsero che era tutto inutile, ordinarono che Teodoro fosse torturato e bruciato vivo. Le sue ossa furono amorevolmente raccolte e conservate a Euchaita (l'odierna Aukat, Turchia).
San Gregorio di Nissa, appena vent'anni dopo il martirio di Teodoro, raccontò gli episodi essenziali della sua breve avventura terrena in un'orazione solenne (il "panegirico"), in cui tra l'altro si chiese: "Chi, tra i capitani che hanno espugnato città fortificate e assoggettato numerosi popoli, è stato così glorificato come questo povero soldato ?"
Il culto di San Teodoro, molto vivo in Oriente per secoli, fu trasferito dai Veneziani nella loro città, che lo elesse a suo patrono prima di San Marco. Nel 1210, il 27 aprile (ma la data è presunta), le reliquie di San Teodoro furono trasportate dai marinai veneziani da Euchaita a Brindisi; la tradizione vuole che sia stato l'Arcivescovo Gerardo a recarsi all'ingresso del porto per ricevere le ossa e conservarle nel Duomo.
A quel tempo il patrono di Brindisi era ancora San Leucio; successivamente e per poco più di un secolo, fu San Giorgio; solo alla fine del XV secolo fu riconosciuto il culto di Teodoro, per merito soprattutto dei Greci, degli Albanesi e degli Schiavoni, che contribuirono a ripopolare la Città dopo il disastroso terremoto del 1456.
La "processione a mare", che si svolge in occasione dei festeggiamenti dei Santi patroni (San Teodoro d'Amasea e San Lorenzo da Brindisi), ha luogo solo dal 27 aprile 1776, allorché il porto interno di Brindisi cessò di essere una palude e fu rimesso in comunicazione con il porto medio e, quindi, con quello esterno. La processione vuole ricordare un episodio miracoloso: i marinai che nel 1210 trasportavano le reliquie di Teodoro, vedendosi inseguiti da velieri turchi, pensarono di metterle in salvo su un sandalo (imbarcazione dal fondo piatto) che, spinto dalla corrente, si diresse all'imboccatura del nostro porto.
Il culto, sia pure breve, di San Giorgio (il santo che a cavallo trafigge il drago) spiegherebbe la frequente raffigurazione di San Teodoro a cavallo, armato di lancia, e talvolta anche nell'atto di colpire il drago o il demonio dall'aspetto umano.
La festività del 9 novembre fu stabilita dalla Chiesa; i festeggiamenti solenni e la processione a mare, che una volta si svolgevano nell'ultima decade di luglio, si tengono ora nel primo fine settimana di settembre. L'ultimo mese dell'estate, che coincide col ritorno dei cittadini che sempre più numerosi sono soliti recarsi nelle località di villeggiatura, è da qualche decennio il periodo preferito per le feste patronali nel Sud d'Italia.
La Scamiciata
Fasano - Rievocazione storica della vittoria contro i Turchi del 2 giugno 1678

Il fatto storico
La pirateria barbaresca fu assai attiva nel secolo XVII contro i paesi pugliesi, specie dopo il 1679, anno in cui Venezia abbandonò l'isola di Candia. Le scorrerie sulla Costa fasanese, in quest' epoca, non si contano, forse anche perché Fasano è territorio dei Cavalieri di Malta. Nel 1670 il sindaco di Fasano, Giuseppe Brandi, viene fatto prigioniero e reso schiavo dai Turchi che assediavano la Città di. Fasano, allora reagisce e si prepara a difesa sotto la guida degli ufficiali del Balì. L'episodio è così riportato nella lapide che fu apposta, a ricordo, sulle mura di Fasano (ne diamo la traduzione dal latino fatta da G. Sampietro):
«Chiunque tu sia cittadino, viandante, straniero, ferma il passo! Guarda il mirabile e marziale evento, che, se con freddo pennello tu vedi ora dipinto, considera che fu da caldo sangue dei Turchi bagnato. Quattrocento musulmani, collegatisi in un intento, salpando da S. Maria a Lepanto in cinque barcacce da pirati, inaspettatamente approdarono in questi nostri lidi, vicino ai Fiumi, il giorno due del sesto mese, anno 1678. Cento di essi restarono a guardia delle barche, gli altri trecento discesero alla spiaggia, e tra il silenzio della notte, al chiarore della luna, penetrarono in Fasano, ove il nuovo borgo era sfornito di muraglia, ed invasero il borgo non solo, e la piazza maggiore, ma pure la Vecchia Terra.
Fingendo i Turchi di fuggire, i cittadini li inseguirono nella sottoposta vallata, ove per un'intera ora, a corpo a corpo, incerti nell'esito, lottarono, finché caduti ventuno di quegli infedeli morti per terra, e feriti molti altri, si ,abbandonarono a precipitosa fuga, riparandosi alle barche.
Più che al proprio valore, i cittadini attribuirono la loro vittoria all'aiuto possente della Vergine SS. Immacolata e dei Titolari della Terra, S. Giovanni Battista e Santo Stefano. Balio di Santo Stefano era in quell'anno Fra Giovanni Battista Brancaccio, prima Generale delle artiglierie del Regno; di poi, allora, Generale supremo dell'intero esercito. Suo Luogotenente qui, nel Baliaggio, il Commendatore Era Silvio Zurla, di Crema, cavaliere valoroso e vigilante, che, prevedendo l'aggressione, addestrò i cittadini alle armi, e li diresse.
Affinché il fatto glorioso si trasmettesse alla posterità nel dicembre di quell'istesso anno, ne fu apposta la lapide».
La tradizione
I tre momenti in cui si svolge la manifestazione vedono coinvolti i centri di Pozzo Faceto, dove si trova il santuario della Protettrice di Fasano; Pezze di Greco, che insiste sull'antica via che da Fasano porta al santuario, e Fasano centro.
La Scamiciata ha inizio con il pellegrinaggio in costume al santuario di Pozzo Faceto dove, con una suggestiva cerimonia religiosa, vengono benedetti I labari di Santo Stefano, San Giovanni e della Madonna di Pozzo Faceto, Patroni della terra di Fasano. Segue un canto di supplica affinché la Vergine protegga la comunità.
Dopo una breve sosta in piazza del Miracolo il corteo rientra in Fasano attraversando Pezze di Greco. I celebri Cortei Storici delle città ospiti aprono il Corteo Storico de "La Scamiciata".
Precede il Corteo il banditore, che, con le parole poste sulla lapide del 1678 di via del Balì, ricorda la battaglia ed il valore dei fasanesi i quali con "l'aiuto possente dei Titolari della Terra" riuscirono, nonostante fossero stati colti di sorpresa ed impreparati alla difesa, a sconfiggere gli invasori, ed invita il popolo alle solenni celebrazioni per ricordare il valore dei Padri.
Segue la drammatizzazione della battaglia tra i fasanesi ed i turchi: la rabbia dei vinti e l'esultanza dei vincitori affascinano lo spettatore, che si vede coinvolto continuamente nella rappresentazione del dramma attraverso l'intero percorso del corteo.
II suono delle chiarine, il rullo dei tamburi, lo sventolio delle bandiere, sottolineano l'inizio della grande Festa: Fasano può rivivere il più importante momento di storia patria; orgogliosa, celebra la sua vittoria.
Sfilano lo stendardo dell'Universitas e la dama con le chiavi della Città, i dignitari, i rappresentanti famiglie nobili con i propri stemmi; ,
Le tradizioni, anche gastronomiche, della provincia
Del grande ed elegante volume "Viaggio in Terra di Brindisi",
di Angela Marinazzo (direttrice del Museo Archeologico Provinciale),
tratteggiamo le tradizioni della provincia.
Dal volume di Angela Marinazzo "Viaggio In Terra di Brindisi"
Il culto religioso e i cortei storici
Il "cavallo parato"
Processione conl'ostentazione dell'Ostia consacrata con il Cavallo Parato
Foto coll. Nolasco
La cavalcata in onore di S. Oronzo
Il torneo dei rioni e il corteo storico di Oria
La Madonna del Belvedere di Carovigno
e la Madonna del Pozzo di Fasano
Madonna del Belvedere - Carovigno
Foto coll. Pennetta
L'asta della bandiera di San Pietro Vernotico
Al 1480, o poco più tardi, risale invece la vittoria dei Sampietrani sui Turchi che, dopo aver preso Otranto, facevano frequenti scorrerie nel Salento. Una vittoria festeggiata dai cittadini di San Pietro ogni anno, il giorno di Pasqua, con l'"asta della bandiera", che i Turchi sconfitti abbandonarono e i vincitori deposero ai piedi del simulacro del loro Protettore, da cui la città ha preso il nome.
La gastronomia
Gastronomia - Foto Coll. F.Zongoli
Nei nostri paesi il pane viene ancora fatto in casa e cotto nei forni a legna. E' molto interessante ricostruire l'origine della "frisella", la ciambella biscottata molto in uso da noi soprattutto in estate: potrebbe essere stata importata dai primi navigatori greci, che la bagnavano nell'acqua di mare, così come probabilmente facevano i crociati e i pellegrini nei lunghi viaggi per raggiungere la Terra Santa. Pane, formaggio e vino costituivano la colazione e il pranzo dei contadini in campagna, spesso con l'aggiunta di cipolla cruda, che contribuiva a dar loro energia e la capacità di resistere per molte ore al duro lavoro dei campi.
In casa le donne cuocevano i legumi (ceci, lenticchie, piselli, fagioli e fave) a fuoco lento, accompagnandoli - quand'era possibile - con cozze nere e verdura cotta. Nei giorni festivi, si cucinava la pasta fatta in casa: le orecchiette e i maccheroncini con sugo di carne (braciole e polpette di cavallo o di manzo), ma pure la pasta al forno, con l'aggiunta di uova sode, mozzarella, salumi e polpettine di carne col ragù. Spesso si usava preparare una teglia di patate con agnello, o con riso e cozze nere (un piatto derivato dalla 'paella' dei nostri antenati spagnoli), che si portava a far cuocere nel forno a legna, un'istituzione ancora in piena attività in diversi Comuni della provincia.
Un buon pasto è sempre accompagnato dai generosi vini locali, soprattutto rossi e rosati, ma anche bianchi, ricavati in particolare da uve Negro amaro e Malvasia nera di Brindisi, ma pure Primitivo e Ottavianello. La dominante di tutti i piatti resta comunque l'olio d'oliva che, con il peperoncino, esalta il sapore del cibo. Gli antipasti terrestri sono costituiti dagli ortaggi locali conservati sott'olio, carciofi, melanzane, peperoni, cipolline, pomodori secchi, olive verdi e nere; quelli marini dalle cozze, dai ricci e dagli altri frutti di mare; da polipi e calamari, alici, sgombri, sarde e merluzzi. La zuppa di pesce è poi un piatto ricercatissimo nelle località della costa, e ha il pregio di cambiare ogni volta i suoi sapori, secondo i frutti di mare e le varietà di pesce disponibili.
Un secondo piatto molto gradito è quello ottenuto con le carni e le interiora del capretto e dell'agnello; ma spesso un'ottima parmigiana di melanzane o di zucchine, o i carciofi ripieni con pane grattugiato, uova e aromi, o la focaccia preparata con ingredienti e condimenti sempre diversi, costituiscono un pasto più che soddisfacente per la varietà, la freschezza e la ricchezza degli elementi nutritivi.
La frutta locale va dalle pesche alle pere, dai fioroni ai fichidindia, dalle ciliegie alle albicocche, dai meloni all'uva, dai fichi all'anguria, dalle mele cotogne alle mandorle. Queste ultime restano il principale ingrediente dei dolci tradizionali, anch'essi fatti di solito in casa, che rappresentano un altro - non trascurabile - motivo per apprezzare la gastronomia della nostra provincia.
Villa Castelli
Dal volume "Viaggio in Terra di Brindisi" di Angela Marinazzo
Continua il viaggio nei Comuni della provincia
Villa Castelli - Municipio - Foto coll. Mogavero-Pennetta
Un bene ambientale interessante è la "gravina" (grande burrone), tornata all'antico splendore con la messa a dimora di piante ed essenze mediterranee. Sulla via per Francavilla è la chiesetta della Madonna dei Grani, edificata su una grancia (fabbricato rurale con funzione di deposito) basiliana del XII secolo. Nell'agro di Villa Castelli è pure interessante l'insediamento di Pezza Petrosa, frequentato dalla fine del V al III sec. a. C.
Torre Santa Susanna
Dal volume "Viaggio in Terra di Brindisi" di Angela Marinazzo
Continua il viaggio nei Comuni della provincia
Castello - Foto coll. Pennetta
A circa quattro km, sulla strada provinciale per Mesagne, nella masseria "Le Torri" (per inciso, l'origine della masseria sarebbe longobarda e il nome deriverebbe dal celtico mas campagna, più er abitazione) vi è la chiesa bizantina di S. Maria di Crepacore, costruita probabilmente prima del IX secolo. Il casale di Crepacore fu abbandonato agli inizi del XIV secolo, allorché cominciò a prendere forma o a svilupparsi, con gli abitanti dei casali vicini, il paese di Torre intorno al nucleo fortificato costituito dalla "turris Messapiorum". Nella chiesa, come in quella che fu dedicata a Oria ai santi Crisanto e Daria, vi è un'altra esemplificazione del "trullo", poiché il suo impianto quadrato, costruito con conci di càrparo delle dimensioni di cm 150 x cm 70 ricavati da costruzioni preromane della zona, è coperto da due cupole.
Nel 1281 Carlo I d'Angiò fece costruire una torre chiamata "Osanna", che - semidistrutta dai terremoti del 1627 e del 1743 - fu abbattuta nel 1823; al suo posto, nel 1837 fu eretta la colonna con la statua di Santa Susanna. La costruzione del castello - su un preesistente nucleo medievale - ebbe inizio nel 1588 e termine nel 1595. I merli sulla sommità furono fatti aggiungere nel secolo successivo dai conti Filo di Napoli che, divenuti feudatari del paese, trasformarono il castello in loro residenza.
La Chiesa Matrice, dedicata prima alla Vergine, poi a San Nicola e infine a Santa Susanna, sarebbe stata edificata a una navata già nel 1330; lavori di ristrutturazione, eseguiti nel 1581, interessarono soprattutto la facciata, che ha un grande rosone centrale, mentre il portale fu fatto eseguire nel 1599; altri lavori, che durarono dal 1774 al 1782, portarono le navate a tre. All'interno è il ritratto di San Carlo Borromeo, del XVII secolo, del pittore ateniese Giovanni Papageorgio. La Chiesa di S. Maria di Galaso fu costruita nel sec. XV là dov'era un'antica cappella, tredici gradini sotto il livello stradale. Sull'altare maggiore è l'immagine della Madonna col Bambino, miracolosamente estratta da un pozzo cui si accede dalla parte posteriore dello stesso altare. Dal 1949 la Chiesa è santuario mariano della diocesi di Oria.